Storie di donne forti e coraggiose. Villaggi western di sole donne. Femminismo nei video di cantanti pop ma anche nelle pubblicità degli assorbenti. Ovvero: come il marketing sta sfruttando il femminismo.
Se c’è una cosa che il marketing sa fare bene è cavalcare l’onda. E da qualche tempo l’onda da cavalcare per vendere prodotti – che siano film, dischi, serie tv o assorbenti – è il femminismo. Non solo un mezzo per vendere prodotti, ma un vero e proprio prodotto a sé. Un prodotto sexy, moderno, accattivante: il femminismo cool. Eppure, noi consumatori e consumatrici, qualche domanda ce la dobbiamo fare quando una gigantesca multinazionale, o una cantante multimilionaria, decidono di presentarsi come “femminista”. Cosa vuol dire? E perché lo fanno?
Il villaggio western di sole donne
Un piccolo esempio: in perfetto tempismo dopo la tempesta scatenata dallo scandalo Weinstein – il produttore americano nonché molestatore seriale – Netflix ha lanciato una nuova serie dalle tinte “femministe”. Ovvero un western insolito: a causa di un incidente minerario in un villaggio muoiono tutti gli uomini e restano solo le donne. Nella locandine della serie ci sono delle donne che imbracciano un fucile, con tanto di slogan “Welcome to no man’s land”, che allude al fatto che quello di Godless non è un villaggio per uomini.
Anche dal trailer e dai vari articoli di presentazione, sembra di avere a che fare con una serie dove le donne sono protagoniste, ribaltando il canone tradizionale del western. Una serie dove si parla di emancipazione, una serie, diciamolo, femminista. Ma poi se si guarda la prima puntata, in circa 75 minuti di donne se ne vedono poche. I protagonisti in realtà sono uomini. La maggior parte delle donne sono quasi solo delle comparse: le famose vedove del villaggio appaiono sullo sfondo, per pochi secondi. Le attrici protagoniste ci sono, ma hanno meno spazio dei colleghi uomini. Abbiamo sbagliato noi a crearci un’aspettativa, oppure c’è dietro un preciso calcolo di marketing?
Ma gli esempi sono tanti
Restando nell’ambito della cultura pop, prendiamo la regina incontrastata e venerata della musica americana: Beyoncé. Nel 2014 chiuse una sua famosa performance con l’enorme scritta FEMMINISTA alle sue spalle. Seguì l’album “Lemonade”, ancora una volta presentato come femminista, con testi femministi, video femministi, e via dicendo. Iniziative lodevoli secondo alcune, posizioni discutibili e ipocrite secondo altre. Una donna potente e ricchissima come lei può essere una testimonial credibile contro le diseguaglianze e certe perversioni del potere? Secondo alcune persone sì, anzi, è la migliore. Secondo altre persone no, sono solo mosse di marketing e il suo presunto femminismo è vuoto, è solo una parola diventata cool.
Sulla scia di Beyoncé molte artiste pop hanno iniziato a parlare di femminismo, anche se spesso in una maniera sospettosamente superficiale. Così il femminismo si è diffuso in film, serie tv, siti, dischi, canzoni, diventando un trend. E quando c’è un trend, come abbiamo visto, al marketing non resta che cavalcarlo. Dunque sono arrivate le pubblicità femministe e ovviamente i grossi nomi della moda non sono stati a guardare. Dalla provocazione ironica di Dior, con la maglietta “We shoud all be feminists” (“Dovremmo essere tutti femministi”), fino agli discussi spot di H&M, Kenzo e altri brand. Di colpo sembra che a tutti piaccia il femminismo.
#Femminismo
Gli hashtag femministi sono diventati un mezzo usato dalle aziende per fare marketing. #likeagirl, qualche anno fa, spopolò, ed era lanciato da un’azienda di assorbenti. #WomenNeedMore da un’azienda di scarpe. E perfino l’hashtag #MeToo, lanciato proprio sull’onda dello scandalo Weinstein e di tutte le altre esperienze di sopraffazione e abuso soprattutto nel mondo dello spettacolo, è stato sfruttato da alcune aziende diventate improvvisamente “femministe”. Esiste perfino un termine per definire questa tendenza: femvertising, cioè femminismo + advertising, ovvero pubblicità.
L’origine, come abbiamo visto, è nelle star della cultura pop, ma poi, anche grazie ai social network, la tendenza a sfruttare l’etichetta “femminista” per darsi un’aria più cool e impegnata è diventata una faccenda che riguarda aziende milionarie. Azienda che, per quanto possano apparirvi sincere e impegnate, metteranno sempre al primo posto il guadagno e che faranno di tutto per risultarvi convincenti e vendervi i loro prodotti.
Quando vediamo questo tipo di campagne “femministe”, o locandine con donne in primo piano per film dove in realtà sono in secondo piano, dobbiamo capire che sono scelte fatte a tavolino. E non è vero, come pensano alcune persone, che “l’importante è che se ne parli”, perché se se ne parla nel modo sbagliato, o se ne parla solo per vendere un prodotto, allora se ne sta parlando male e il tutto diventa controproducente. Se pensiamo che il femminismo e l’uguaglianza tra uomini e donne sia una cosa seria forse non dovremmo lasciarci manipolare dal marketing così facilmente.
Vedi anche: Il femminismo ha rovinato il romanticismo?
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