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Il Buddha veste Prada: storia di una manager milanese convertita al buddismo

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Nella metropoli milanese nulla sembra giustificare la presenza di un clima zen e meditativo, eppure una giovane manager è riuscita ad applicare gli insegnamenti del Buddha alla sua vita quotidiana. Migliorandola.

greta

“Scalata la gerarchia aziendale mi sono accorta di non essere per niente realizzata a livello umano, non ero felice: una laurea sudata, un matrimonio fallito alle spalle, le amicizie rarefatte e la lontananza da casa divennero all’improvviso fardelli insostenibili anche a fronte di una carriera professionale brillante.  Avevo solo il lavoro come forma di realizzazione personale e al contempo come unica fonte e occasione di socializzazione”.

Il giorno in cui Greta decise che avrebbe cambiato qualcosa nella sua vita si trovava al matrimonio di un collega. “Era orribile, d’un tratto ho aperto gli occhi e mi sono resa conto che gli attori della mia vita erano sempre gli stessi, fuori e dentro all’ufficio”.  Nella vita in bianco e nero di Greta c’erano sempre le stesse facce sorridenti come in uno sceneggiato patinato che rappresenta un mondo uniforme e verticistico:”Non sapevo se piangere o mettermi a ridere davanti a questo teatrino: la mia vita era l’azienda con i suoi ragionier Fantozzi, i geometri Filini e le conturbanti signorine Silvani ma anche i “direttori naturali”, i dirigenti cannibali”.

Così al matrimonio, celebrato in una villa di fine Settecento, c’era il tavolo degli alti papaveri separato dal resto.  Di fianco sedevano, fra di loro, i quadri intermedi, più a sinistra i giovani manager e il tavolo dei contabili e degli impiegati; in fondo a destra le segretarie e gli stagisti in ansia per il rinnovo di contratto. Un microcosmo con le sue differenze gerarchiche che si riproduceva a ogni occasione extra-lavorativa. “Non volevo scappare da quella situazione ma cercavo un nuovo ordine di cose, una nuova scala di priorità, volevo riprendermi il mio futuro da anni ormai indistinguibile da quello del “bene dell’azienda”, recuperare la mia vita fagocitata insieme a quella della segretaria di direzione, dell’impiegato timido, del contabile simpatico, del giovane quadro del comparto “logistica”, e ancora dei revisori e dei consulenti, dell’assistente del capo del personale, degli stagisti: tutti insieme forzosamente per il “bene” dell’impresa”.

In fuga dal tritacarne dell’azienda Greta comincia a frequentare un gruppo di preghiera buddista. La sua è una mossa per razionalizzare il presente e fare ordine nella sua vita, per dare il giusto peso alle cose, non è un gesto clamoroso di “rottura” con il passato.

Loto

“Non ho mai pensato a scelte radicali come a lasciare il lavoro e girare per le montagne scalza, il buddismo predica equilibrio, e io ne avevo bisogno come l’ossigeno, non volevo più respirare la stessa aria viziata dentro e fuori dall’ufficio”. Così Greta prende a interessarsi sempre di più alle discipline orientali e al buddismo giapponese, una religione che per storia, tradizione e pensiero appare molto distante e poco compatibile con la frenetica vita di una metropoli occidentale e contemporanea. “Il bello con il buddismo di Niquiren è che sei libero di applicare i suoi insegnamenti in base alle condizioni ambientali in cui ti trovi”.

Anche se non è propriamente una fuga in avanti dalla dura realtà della catena di comando aziendale il buddismo per Greta è un rifugio dal presente, un modo di fare astrazione dalla società contemporanea e di non soccombere alle sue regole e ai suoi ritmi.

Ma chi era Greta prima di convertirsi al buddismo? Era una ragazza umbra che a metà degli anni ’90 traslocò a Trieste per motivi di studio. Fumava, beveva, mangiava di tutto, soprattutto junk food; era un po’ punk: portava i capelli rasati e aveva buchi multipli alle orecchie sempre ornate da manufatti colorati che vi pendevano.

All’università era vagamente militante nei collettivi studenteschi di sinistra e per qualche tempo aveva aderito a uno dei tanti comitati anti-ceretta di matrice femminista che infestavano le università. Era un’ottima studentessa, laureata a pieni voti con una tesi sulla lotta armata nei Paesi Baschi che ha discusso alla fine del 2004 all’università di Trieste.  All’epoca indossava gonne larghe e canottiere attillate, d’estate calzava sempre sandali birkenstock.

La sua cameretta da studentessa fuori sede, illuminata da flebili candele, odorava sempre di incenso patchouli. Sui muri aveva affisso bandiere arcobaleno e ritratti di eroi terzomondisti. Era un’altra epoca. E lei era una “no global”: una reduce degli anni ’90, di Manu Chao, dell’Erasmus a Barcellona e dei viaggi interrail.

Arriva a Milano una settimana dopo il conseguimento della laurea. Ha con sé due valigie e tanta determinazione. La realtà si manifesta subito in tutta la sua durezza: le giornate sono una lotta quotidiana per la sopravvivenza e la vita si fa amara. Ospite di un’amica che poco dopo la caccia di casa, si ritrova a dividere l’appartamento con degli studenti, ad accettare un declassamento, o meglio un immobilismo sociale: il superamento di status di studentessa non arriva subito.

Riesce a farsi assumere in una grande società di telecomunicazioni e comincia la vera gavetta in azienda: parte in sordina con uno stage miseramente retribuito, si occupa di fotocopie e dei caffé, poi diventa impiegata e per sette anni si occupa di classificare documenti e gestire gli archivi dell’impresa. Compiti che esegue come un automa. In quel periodo incontra suo marito da cui poi si separa nel 2014. L’uomo è già un manager affermato e la introduce al magico mondo dei capitani di azienda. I capi, i dirigenti del personale, i quadri aziendali, il potere vero.

Poco dopo la sua vita cambia, viene promossa a “quadro” e il ritmo di lavoro si fa più incalzante, erodendo il poco tempo libero a disposizione: fra mezzi di trasporto e orario di lavoro riesce a malapena a concedersi una cena con le amiche o a ritagliarsi il tempo per andare al cinema con il marito. “Ero assorbita dal lavoro, la mia vita era l’azienda”, ricorda Greta.

Prada Milano

Oggi Greta “veste Prada” ma ha ripreso con gli incensi e le candele. Ha smesso con la sigaretta, il caffé, l’alcol e il latte e suoi derivati, si cura con la medicina omeopatica e mangia cibi “organici”. Prega ogni giorno davanti a un tempietto che ha allestito in un angolo del salotto. Dopo la separazione dal marito ha comprato un cane chiuaua che porta nella borsa come nei più classici dei clichés sulle donne in carriera ricche e viziate.

“Ogni mattina e spesso anche alla sera recito le preghiere, so che non cambierò il mondo e in fondo lo faccio per me stessa non per il prossimo: è l’unica medicina efficace che ho trovato per combattere la dittatura del presente e il disordine individuale e urbano”.  Greta recita il mantra “Nam Myoho Renge Kyo“, il sutra del loto che evoca l’ipotesi di un mondo organico fatto di elementi interdipendenti in armonia che rimbalzano fra natura e uomo, e sulla possibilità che “anche dalle condizioni più ostili possa fiorire una vita preziosa, come appunto viene metaforicamente interpretato il loto che nasce nella palude melmosa”, spiega la manager.

Il buddismo è la terza religione più praticata d’Italia, dopo il cristianesimo e l’Islam. Nel paese vivono circa 100mila buddisti suddivisi in due grandi “parrocchie”:  l’Unione Buddhista Italiana di derivazione tibetana e l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Quest’ultimo, di ispirazione giapponese, ha recentemente aperto uno dei templi più grandi d’Europa, a Corsico nella periferia di Milano. Un edificio dall’aspetto futuristico inaugurato nell’ottobre del 2014 alla presenza delle massime istituzioni locali in cui pregare, studiare e approfondire il buddismo giapponese.  Padrini di questa parrocchia sono personaggi famosi come Roberto Baggio, Michelle HunzikerSabina Guzzanti.

Ogni giorno Greta si impegna a ricordarsi che ciascun suo singolo gesto o pensiero impatta sia su se stessa che sugli altri: quindi ogni “negatività” o “positività” prodotta con il proprio agire ha un effetto tanto sulla propria felicità quanto su quella del pianeta, “dell’insieme”. Il buddismo di Niquiren è per lei armonia con il circostante, lo strumento teorico per la sopravvivenza e la salute mentale.

L’esperienza di Greta si ascrive nella più generale ricerca di spiritualità che colpisce comprensibilmente la fauna solitaria delle grandi metropoli.  Che dappertutto nel mondo occidentale ci fosse una tendenza verso il “ritorno al religioso” è un fatto ormai innegabile. Il conflitto fra Ovest-Est è stato sostituito con quello fra Nord-Sud del mondo, contrasto interpretato sotto la lente di presunte guerre di civiltà. Persone come Greta  stanno nel mezzo: si sono “liberate” da questi fardelli ideologici contemporanei dissociandosi alla radice dalla linea del fronte:”Non c’e’ nessuna animosità nell’essere un buddista, non esistono fanatismi: il buddismo non ha una sharia ne pretende di imporre alcun dogma, al contrario fornisce strumenti utili per ogni stagione e per ogni individuo, sta ai singoli adattarli alla propria vita e ambiente” .

3 Comments

  1. Stefania
    12 Gennaio 2019 at 16:39 — Rispondi

    Non è Niquiren ma Nichiren!

  2. Rossella
    13 Gennaio 2019 at 11:25 — Rispondi

    Parrocchia ? padrini?? Niquien? Ma che articolo e’ ? Sicuramente interessante l esperienza ma ci sono diversi termini che non spiegano correttamente il buddismo e possono confondere chi legge e non conosce la pratica

  3. Cristina
    13 Gennaio 2019 at 16:15 — Rispondi

    Solo un appunto: si scrive “Nichiren” non “Niquiren”. Anche se è un articolo divulgativo, ritengo importante precisarlo.

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