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Donne e impresa, intervista a Chiara Albonico: presidente della cooperativa Prospectiva.

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“Essere imprenditrici nell’ambito artistico culturale si può, ma per rilanciare i beni culturali in Italia occorre una testa diversa  e un sistema più dinamico” racconta Chiara Albonico a Donne sul Web. Ecco la sua storia

Chiara AlbonicoChiara Albonico è storica dell’arte e presidente della cooperativa Prospectiva, fondata a Bologna nel 2009. Come racconta lei stessa, “Prospectiva si occupa di arte a 360°” fornendo servizi di ricerca storico-artistica, catalogazione, didattica, visite guidate e conferenze.

Ad avviare con lei questo progetto lavorativo in piedi da sette anni, altre cinque socie, all’epoca poco più che trentenni e oggi donne sulla media dei quarant’anni. “Ci siamo conosciute nell’ambito delle soprintendenze e delle gallerie, un ambito soprattutto statale – spiega Chiara -. Ci siamo scelte come socie perché ognuna di noi ha una specializzazione diversa: ciascuna integra la propria formazione grazie alla formazione delle altre. In questo modo spaziamo su tutti gli ambiti della storia dell’arte e dell’architettura.”

Chiara Albonico ci racconta qui  il suo percorso di lavoro in un settore, quello dei beni culturali, ad alta presenza femminile e per questo considerato a volte “un passatempo per signore invece che un terreno dove poter fare impresa”. Eppure, per lei e le sue socie, la scelta dell’imprenditoria culturale è stata la leva per affrancarsi dal precariato e costruire il proprio futuro.

Chiara, lei ha lavorato sempre nei beni culturali e nell’arte anche prima di Prospectiva?

No, ho svolto molti lavori, come tutti. Ho lavorato in uffici, presso una copisteria, come tutor in agenzie formative, come bibliotecaria… mi sono sempre inventata qualcosa. Come origini sono lombarda, di Como, e sono venuta a Bologna per studiare. Sono rimasta qua convinta che una città grande mi avrebbe dato più opportunità, e così è stato. Come studi ho seguito un percorso lineare: ho studiato storia dell’arte e durante gli anni di specializzazione ho sempre continuato a lavorare, anche in altri settori. Sono diventata storica dell’arte e non ho ancora smesso.

Qual è stata la molla che a un certo punto l’ha fatta decidere di aprire un’impresa cooperativa?

In soprintendenza, uno dei funzionari per cui abbiamo lavorato io e alcune delle persone che sarebbero diventate le mie colleghe ci suggerì di associarci. Secondo il suo parere, infatti, sarebbe stato più utile per le soprintendenze avere una società di riferimento piuttosto che il singolo studioso. Questo è stato il primo stimolo esterno. D’altro canto noi, che avevamo poco più di trent’anni, ci siamo rese conto che avremo finito per essere precarie tutta la vita.

Lo stimolo definitivo è stato un bando della provincia di Bologna per l’imprenditoria femminile: il decimo e ultimo bando, perché dopo sono finiti i fondi. Abbiamo partecipato ed è stata l’occasione che ci ha fatto stringere i denti. Probabilmente l’avremmo fatto comunque, ma i 5000 euro a fondo perduto vinti ci hanno permesso di affrontare le spese iniziali con più leggerezza.

Dopo questo aiuto, per noi assolutamente fondamentale, l’intenzione dichiarata della provincia era quella di continuare a sostenerci. In realtà non è stato così. Nei primi due anni ci hanno vagamente monitorato per capire se stavamo in piedi: in realtà stare in piedi per noi era un obbligo, pena la restituzione della cifra iniziale, quindi siamo andate avanti con le nostre forze.

Avete aperto nel 2009, sette anni fa: oggi quanti siete?

All’epoca eravamo sei socie, da una parte perché nel settore ci sono quasi solo donne, dall’altra perché il bando era per l’imprenditoria femminile. Questo ci ha vincolato per due anni a essere soltanto una compagine femminile. Oggi la situazione è un po’ cambiata: siamo otto soci, di cui sei lavoratori fissi, più altre risorse per un totale di dodici persone fra soci e collaboratori.

Non lavoriamo solo su Bologna, ma anche su Modena, Ferrara, Parma, Imola, Faenza, Piacenza e Mantova. Quando capita abbiamo anche collaboratori sul luogo. È successo per esempio a Mantova, a Piacenza… Questo mi piace, per noi ha senso coordinare persone che possano valorizzare il loro territorio.

Qual è stato il suo momento lavorativo più difficile?

Prima di aprire la cooperativa mi sono sempre inventata di tutto, quindi lavorativamente non sono mai rimasta ferma. Come società, invece, non siamo partite subito a regime perché la priorità è stata organizzare tutto il lavoro. Nel primo anno di strutturazione abbiamo portato a casa molto poco, ma nonostante siamo nate nel 2009 siamo uscite dalla crisi generale senza troppi danni. Lo sconforto, invece, è venuto l’anno scorso e due anni fa con la riorganizzazione del Ministero per i Beni Culturali.

A causa del pensionamento di alcuni nostri referenti storici ci siamo dovute reinventare, trovare nuovi referenti e cambiare clientela. Questo ha significato rivolgersi a enti privati, fondazioni, investire su noi stesse, trovare altre strade, chiedere consulenze. Tra l’altro il nostro è un settore abbastanza ristretto, io stessa mi sono chiesta se valesse la pena andare avanti oppure inventarsi qualcos’altro.

E invece un progetto che le è rimasto particolarmente nel cuore?

Si tratta di un progetto scaturito da una situazione tragica. Abbiamo lavorato per fornire lo studio necessario al restauro di opere architettoniche in parte crollate dopo il terremoto dell’Emilia. E’ stato un momento di conoscenza del territorio molto importante, durante il quale abbiamo lavorato in un’ottica diversa. Ci siamo rese conto che il nostro lavoro poteva avere un aspetto funzionale immediato. A volte ci capita di interrogarci sul senso di quello che stiamo facendo, un senso che tante volte si trova quando c’è il contatto con il pubblico: quando racconti alle persone cose che non sapevano ti rendi conto che il tuo lavoro e il tuo studio servono a qualcosa. Lavorare nei luoghi del terremoto, invece, ha costituito una “presa di realtà” molto immediata.

Ormai è in Emilia da molti anni, cosa le manca di più di Como, la sua città?

La mia famiglia, le montagne e il lago, in ordine di importanza sparso.

Tornando al suo settore, secondo la sua esperienza da cosa bisognerebbe ripartire per gestire meglio i beni culturali in Italia?

Bisognerebbe smettere di ragionare come se fossimo tutti in un museo, penso per esempio a quei piccoli musei che nascono continuamente e stanno aperti sei mesi finché durano i finanziamenti. Non si può musealizzare tutto, questo è fondamentalmente sbagliato. Al di là di ciò, in soprintendenza ho sentito spesso funzionari parlare dello spostamento delle opere d’arte. Siccome molte opere viaggiano davvero tanto, sostenevano che per problemi conservativi bisognerebbe limitare gli spostamenti. In realtà queste opere sono un vero patrimonio ed è un bene che viaggino, ovviamente nelle migliori condizioni di sicurezza.

Bisogna farle circolare, renderle patrimonio comune: come si suol dire, se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. Inoltre, bisognerebbe chiedere più aiuto ai privati, alle aziende, all’estero. Smettere di essere così tanto orgogliosi, non sulla proprietà, assolutamente, ma sulla gestione dei nostri beni culturali. Ci vuole una testa diversa, un sistema più dinamico.

E invece dei privati che usano i beni culturali per allestire eventi esclusivi, su invito, spesso a carattere privato, cosa ne pensa? Alcuni casi a Firenze e Roma hanno fatto scalpore…

C’è differenza fra questo e la vera promozione. Finché si apre a conferenze, concerti, avvenimenti che sia sensato accogliere fra le opere d’arte o comunque coerenti con il luogo culturale che li ospita, mi sta benissimo. Per il resto, secondo me c’è un limite.

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