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La forza delle donne arabe, oltre gli stereotipi

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La vita delle donne nel mondo arabo e la miopia occidentale.

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Il mondo arabo è molto più complesso di quanto le rappresentazioni che ne dà l’Occidente facciano pensare. E anche questa in realtà è una generalizzazione: perché anche dalle nostre parti, per fortuna, ci sono donne che tentano di affrontare il discorso nella maniera più ampia, non limitandosi a due o tre stereotipi sul velo nell’Islam, ma anzi andando contro, facendo capire che le cose sono molto più complesse. Lo fanno Ilaria GuidantoniMariagrazia Turri nel libro “Il potere delle donne arabe”( Editrice Mimesis), dove affrontano il mondo femminile arabo da diversi punti di vista, con riflessioni stimolanti ma soprattutto nuove, rispetto alle solite confusioni tra il termine “arabo” e “musulmano” o l’ossessione occidentale per il velo. Ne viene fuori un panorama molto più ampio su una cultura che noi vediamo come diversa ma che, almeno in parte, ci appartiene: infatti noi siamo anche mediterranei, nonostante tendiamo a dimenticarlo. Abbiamo parlato di questo e di altro con una delle due autrici, Ilaria Guidantoni.

Secondo lei qual è lo stereotipo più radicato e diffuso in Italia nei confronti del mondo arabo?

Di donne senza potere, come recita provocatoriamente il titolo del libro scritto a quattro mani con la studiosa Mariagrazia Turri. Ritengo che, seppure spesso non hanno potere, hanno una forza interiore. Il mondo non-arabo confonde l’apparenza con la realtà perché ragiona con i parametri europei per cui il velo lo legge come forma di repressione, censura o anche solo autocensura. Bisognerebbe capire cosa c’è dietro. Inoltre il mondo dei non addetti ai lavori confonde la parola coranica, con la legge coranica e soprattutto con la politica e la legislazione degli stati arabi. Quello che io ho cercato di fare, con la traduzione e la comparazione tra Bibbia, Vangelo e Corano, è di mostrare quanta similitudine ci sia soprattutto tra il Nuovo Testamento e il Corano. Inoltre mi interessa evidenziare che la legge dello stato, anche quando ispirata al Corano, è spesso una sua interpretazione e per lo più una cattiva interpretazione. Diversamente da quanto si pensa il Corano è sovente più “emancipato” e aperto della legislazione degli stati arabi, soprattutto nei confronti dell’universo femminile.

In Italia, e non solo, “araba” e “musulmana” sono spesso erroneamente usati come sinonimi. Nel vostro libro si parla di donne arabe, non musulmane. Ci può spiegare la differenza?

E’ un discorso molto complesso e quello che mi preme evidenziare è la necessità di distinguere i termini. Un paese arabo è una nazione nella quale la lingua ufficiale, almeno una delle due lingue, è l’arabo; la religione prevalente e di stato è l’islam e la maggioranza della popolazione è araba. Ora sono vent’uno i paesi arabi, dalla Mauritania, all’Arabia Saudita, passando per Gibuti e l’Egitto: un universo molto variegato. Inoltre ad esempio un paese come l’Algeria ha una parte significativa della popolazione che è di origine nomade, dagli amazigh ai tuareg, ai cabili, non araba anche se convertita. E poi come ovunque nel mondo si può essere arabi, di famiglia musulmana ma essere atei o appartenere ad uno stato come cittadini ed essere di un’altra religione. Sono piani che si intersecano e si separano.

Bisogna fare attenzione a non rendere sinonimo arabo e musulmano. I turchi sono musulmani per lo più ma non arabi; mentre tra i palestinesi ci sono molti cristiani. E poi è importante non parlare della donna araba musulmana come se fosse la stessa ovunque perché una donna saudita di tradizione wahhabita è molto lontana da una tunisina o algerina sunnita malakita o hanefita.

Le interpretazioni dell’islam e la cultura, nonché la mentalità cambiano totalmente. Questo vale anche per i cristiani d’altronde dove al di là delle confessioni si associano culture e tradizioni, mentalità totalmente diverse, basti paragonare la Francia e l’Italia. Sul tema del velo che tanto appassiona il mondo europeo come se tutto passasse da un foulard, il burqa, ad esempio, è solo afgano; mentre nel maghreb non si usa, così come non si usa – a parte negli ultimi tempi in Libia, né il niqab (il velo integrale) né il chador che per altro non sono presenti nel Corano che parla solo dello hijab, il foulard che lascia scoperta il viso.

Negli ultimi anni parlando del ruolo della donna nella società araba ci si è concentrati quasi esclusivamente sugli aspetti legati al corpo e alla sessualità. Non pensa che questo abbia in qualche modo limitato un discorso potenzialmente più ampio?

Certamente. Solo che la sessualità è quello che attrae di più l’attenzione perché è l’esempio più lampante del nostro vivere. In una società ad alta mobilità il problema è emerso perché la convivenza passa inizialmente dal contatto fisico, quindi da come ci si veste, prima che da quello che si mangia per fare un esempio. In particolare crescendo i contatti tra popoli e culture diverse, si formano le cosiddette coppie miste ed è per questo che, soprattutto in tema di figli, il confronto diventa stringente. Si parla anche di quello che si conosce e di quello che si vede. Sulla sessualità coranica non si sa nulla e si immaginano generalmente contenuti molto diversi.

Per mia modesta esperienza posso dirle che quando presento i miei libri è su questo versante che si orientano per lo più le domande del pubblico. Vedremo cosa accadrà a Firenze, dove sarò sabato, il primo giorno di primavera, grazie ad un’iniziativa significativa dell’hotel Golden Tower che ha dedicato il mese al femminile. Tra l’altro il turismo ormai deve tener conto di una società multiculturale e anche al Cosmprof di Bologna quest’anno c’è un padiglione interamente dedicato alla cosmesi ħalāl, permessa secondo il Corano. Si comincia dagli aspetti più facili e più utili alla convivenza, ma è un inizio.

Quanto pensa sia sentito, tra gli italiani e le italiane, il concetto di mediterraneità?

«Per me è stata la scoperta della mia vera identità ed è per questo che nel libro la parte di cui mi occupo ha questa prospettiva. Il mediterraneo è la culla della società occidentale e delle tre religioni del libro, del confronto tra la cultura classica greco-romana, da una parte, e quella fenicio-cartaginese e araba, dall’altra.

L’Italia è stata l’iniziatrice in qualche modo di questa cultura insieme alla Grecia, quella che ha dato il nome al mare, quel lago salato che sta in mezzo alle terre – gli arabi lo chiamano il mare bianco – alias tranquillo di mezzo – eppure è dimentica di questa sua consapevolezza e anche di questa sua possibilità di essere guida. Purtroppo il mediterraneo nei secoli ha rappresentato un luogo di scambio e incontro ma anche di scontri, soprattutto per la sponda sud e quindi la tentazione di ritirarsi è stata forte. L’Algeria in questo senso docet ma ne ha pagate le conseguenze. E’ nel Mediterraneo che riposa un futuro di pace e sviluppo. E’ la sola alternativa, ben oltre il sogno.»

Com’è nato il suo interesse personale verso i temi affrontati nel libro?

«Sono anni che mi occupo di Mediterraneo arabo. Un interesse nato inizialmente grazie all’incontro con la letteratura, in particolare libanese, poi maghrebina; e in parte anche per l’occasionalità di essermi trovata a Tunisi per un periodo abbastanza lungo sotto il regime di Ben ‘Ali, del quale in Italia non si sapeva nulla o quasi, comunque si tacevano i risvolti vergognosi. Con lo scoppio della cosiddetta rivolta dei gelsomini, termine decisamente europeo e ammiccante, è nato il mio desiderio di approfondimento, come un’urgenza esistenziale.

E’ stato soprattutto nell’osservare l’impegno al femminile, non quello delle intellettuali e delle femministe, in generale della classe borghese e colta, ma del popolo delle donne indistintamente, che ho cominciato a guardare e a leggere la società con una prospettiva nuova. Le donne, mi sono accorta, sono come le rose in un vigneto: rivelano prima delle viti la presenza della fillossera, un insetto che mina le coltivazioni. Sono l’elemento più fragile e il campanello di allarme della società.»

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