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Perché in Italia le donne che fanno sport sono considerate dilettanti?

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La Pellegrini? Una dilettante. Flavia Panetta? Idem. E così tutte le giocatrici di calcio. Di fatto sono delle professioniste dello sport, ma non per la legge italiana. In Italia il professionismo sportivo è consentito solo agli atleti uomini. Perché questa discriminazione?

Federica Pellegrini
REUTERS/Michael Dalder

Ve le immaginate due superstar come la pluricampionessa olimpica e mondiale Federica Pellegrini, o la fresca vincitrice degli Us Open di tennis, Flavia Panetta, fare un salto la sera in palestra per un paio d’ore di attività fisica dopo una giornata di lavoro in ufficio o in fabbrica? Ovviamente no. Per raggiungere certi livelli, il loro lavoro consiste nell’allenarsi duramente tutti i giorni. Migliorare costantemente la tecnica e tenere il fisico in perfetta forma. Sono delle professioniste. Ma non per la legge italiana, che non riconosce ad alcuna disciplina sportiva femminile tale status. Per definizione, tutte le donne che praticano sport in Italia a qualsiasi livello sono delle dilettanti. Non si tratta di un anacronistico omaggio allo spirito olimpico del  barone De Coubertin, ma di un buco normativo frutto di una chiara discriminazione di genere.

La colpa è di una legge del 1981

Nel nostro paese infatti, il professionismo sportivo è possibile solo per i maschi. E’ regolato da un legge ormai vecchia di quasi 35 anni: la 91 del marzo 1981 che affida al Comitato Olimpico Nazionale Italiano – il Coni – e alle singoli Federazioni il compito di definire quali discipline possano comprendere un livello professionistico.

Calcio femminile Italia

Attualmente sono cinque: motociclismo, golf, basket, ciclismo, pugilato e naturalmente lo sport più praticato e seguito al mondo, il calcio. Che in Italia, in ambito femminile, sta vivendo una crescita percentuale impressionante: sono esattamente 20,563 le nostre atlete praticanti, il 72% in più rispetto a solo sei anni fa. E tutte, come le loro colleghe degli altri sport, senza alcuna possibilità di vantare una pensione futura, la mutua in caso di infortuni o malattia, un trattamento di fine rapporto, la maternità. Benefici elementari che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo vista la progressiva erosione dei diritti in tutti i settori lavorativi) venire riconosciuti a qualsiasi professione.

Non solo Pellegrini e Panetta: è un problema che riguarda tutti

Questioni che forse possono interessare marginalmente superstar come la Pellegrini o la Panetta che, grazie agli enormi introiti derivati dagli sponsor e dalle loro vittorie – solo con il successo agli Us Open, la tennista pugliese si è portata a casa 3,3 milioni di dollari – non hanno certamente simili preoccupazioni. Che invece, ci riguardano, o dovrebbero riguardarci, tutti. Perché certe campionesse che danno lustro al nostro sport e al nostro paese, sempre più in futuro avranno la possibilità di emergere quanto più lo sport femminile sarà in grado di garantire le condizioni per poter essere praticato ad alto livello da un numero elevato di atlete. A partire dall’introduzione del professionismo, come per i maschi.

Flavia Pennetta
Flavia Pennetta finale U.S. Open Championships tennis New York, September 12, 2015. REUTERS/Mike Segar

Una svolta che potrebbe verificarsi grazie alla proposta di legge, a dire il vero oggi ferma in parlamento, presentata nel novembre 2014 – prima firmataria la giovane deputata Laura Coccia, un passato da atleta – che presenta importanti modifiche alla legge dell’81, introducendo “il rispetto dei princìpi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione”.

Stereotipi antichi duri a morire

Un’ aggiunta esclusivamente formale? Mica tanto. Non solo perché in Italia a qualsiasi livello le pari opportunità sono spesso una mera dichiarazione di principio smentita quotidianamente dai fatti, ma anche perché lo sport in particolare rafforza gli orientamenti che in una società definiscono culturalmente ciò che è appropriato, ciò che è “naturale”, per un maschio e per una femmina. Insomma, i ruoli sociali basati sul genere. Infatti, se per i ragazzi lo sport risulta da sempre una sorta di rito di passaggio atto a valorizzare caratteristiche tradizionalmente ritenute di appannaggio maschile quali la virilità, l’attitudine alla competizione, l’aggressività, la lealtà e lo spirito di squadra, anche in quest’alba del terzo millennio le ragazze impegnate in attività sportive sono vittime di stereotipi antichi.

 

Ancora oggi per tantissimi tra noi, una donna che sviluppa al meglio le potenzialità del proprio fisico per praticare ad alto livello lo sport che ha scelto, “sembra un maschio”. Evidentemente non ci siamo affatto liberati dalla convinzione secolare che considera il binomio donna e sport una deviazione dalla femminilità, una mascolinizzazione anomala che finisce per incidere sulla sfera della sessualità. Convinzione che a lungo ha costituito – e costituisce – un deterrente non da poco per avvicinare le giovani donne a sport considerati “da maschi”.

Lo sport è solo per i maschi?

Ma mentre nella nostra epoca ci beiamo – in maniera ipocrita o del tutto inconsapevole – di una società in cui le discriminazioni di genere sarebbero solo un ricordo del passato, chi aveva perfettamente compreso il valore simbolico e culturale dello sport per definire il ruolo sociale di maschi e femmine, è stato il fascismo.

Così scriveva infatti, il 22 novembre 1933, il quotidiano sportivo “Il Littoriale” (oggi Corriere dello Sport-Stadio): “L’attività sportiva femminile, in Italia, è stata fino ad oggi mantenuta nei limiti della più scrupolosa decenza: non per un superficiale riguardo a norme tradizionalistiche, ma per una profonda comprensione delle finalità etiche alle quali l’educazione fisica muliebre deve tendere in una nazione quale la nostra”. Non che durante il Ventennio si reputasse poco importante l’attività fisica femminile. Anzi, la si incoraggiava: era un preciso compito delle donne essere in forma per poter procreare a getto continuo.

Un dovere quello di distinguersi come buone mogli e madri per regalare alla patria figli sani e forti. “Conscio dei doveri che il regime gli ha affidato – continuava il pezzo – il CONI ha sempre represso qualsiasi tentativo sporadico di introdurre in Italia uno ‘spettacolismo‘ sportivo femminile”. Messaggio chiaro: tenetevi sì in forma, ma state al vostro posto, a far da angeli al focolare.

“Quattro lesbiche”

A oltre settant’anni di distanza le cose sono certamente cambiate. Ma nemmeno troppo. Se solo quattro mesi fa Felice Belloli, l’ormai ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, riferendosi al calcio femminile si lasciava andare a una esternazione (trascritta a verbale e da lui successivamente smentita) di questo tenore: “Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche!”. Sparata che gli è costata il posto da presidente della Lega. Ma per un Belloli costretto a lasciare in quanto dirigente traditosi pubblicamente, in Italia sono ancora in tantissimi preda di radicate convinzioni vetero maschiliste.

Probabilmente gli stessi, a centinaia, che durante l’impresa spaziale dell’astronauta Samantha Cristoforetti l’accusavano nei commenti online di esser riuscita a salire in cielo grazie a certi suoi “servizietti” praticati a terra. Per non dire di quelli che viravano sull’altrettanto classico: “Ma non è una donna, sembra un uomo”. Non c’è niente da fare, una donna intelligente o una donna  con un fisico atletico sono sistematicamente vittima degli stessi stereotipi: certe caratteristiche possono essere solo maschili. Segnali importanti che dimostrano come il nostro, ancora oggi, non sia affatto “un paese per donne”. Con buona pace di chi è convinto che noi maschi, di pari opportunità ne abbiamo ormai “regalate” anche troppe.

 

 

 

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